DA TOBRUK A ZONDERWATER - Artigliere Manlio Sulis Pow 190869 - di Giovanni Sulis (Generale di C.A. in congedo)

di Giovanni Sulis ( Generale di C.A. in congedo)

 

POW ME 190869 – 162782

MANLIO SULIS

Artigliere 130° Gr. Obici da 149/13 del 25° Rgt.Art. di C.A.

nato a Orani (NU) il 4/07/1911

catturato a Tobruk il 23/01/1941

Rimpatriato l'11/02/1946

 

DA TOBRUK A ZONDERWATER

foto 1La “Premier Mine”, di proprietà della compagnia diamantifera Petra Diamonds, ubicata nella città di Cullinan, 40 km. a est di Pretoria, è celebre per il ritrovamento, nel 1905, del diamante Cullinan che, con il peso di 3.160 carati, è il più grande diamante grezzo mai scoperto.

Nel 1907 il Governo Sudafricano offrì la pietra a Edoardo VII, re d’Inghilterra, in occasione del suo 66° compleanno come segno di gratitudine verso il sovrano per l’autonomia recentemente concessa. Successivamente la pietra fu frazionata in nove enormi diamanti e se ne ricavarono in particolare:

-il Cullinan I o Grande Stella d’Africa (530 carati) che orna lo scettro imperiale Britannico noto come “scettro di Sant’Edoardo”;

-il Cullinan II (317 carati) montato sulla corona imperiale di Stato.

Ho avuto il piacere di vederli entrambi, esposti nella Torre di Londra con tutti i gioielli della Corona Britannica.

Orbene, su terreni attigui a questa famosa miniera, in una landa desolata a forma di anfiteatro chiamata Zonderwater (che in lingua boera significa “senza acqua”), gli Inglesi, grazie ad un accordo con l’alleato Sudafricano, cominciarono a convogliare i primi prigionieri dai fronti dell’Eritrea e della Cirenaica; già dopo la battaglia di Sidi El Barrani (dicembre 1940) il generale Archibald Percival Wavell, comandante del Teatro Operativo che includeva tutta l’Africa e il Medio Oriente, si trovò a dover gestire migliaia di prigionieri che motivi di sicurezza imponevano di allontanare da quegli scenari in continuo e rapido mutamento, troppo vicini alle zone di operazioni, con il frequente alternarsi di reciproche avanzate e ritirate.

 

foto 2Ma ritorniamo a quel fine gennaio 1941, dintorni di Tobruk: per comodità farò riferimento a luoghi e date che riguardano il gruppo in cui era inserito mio padre, sottintendendo che i fatti si replicarono simili nelle modalità anche per altri prigionieri.

Nel pezzo precedente (v. articolo) avevamo lasciato i ventimila difensori della Piazzaforte, spogliati dai soldati australiani di ogni loro avere o ricordo personale, avviarsi a piedi, in lunghe distinte colonne di circa duemila uomini cadauna, verso il porto di Sollum (foto 1,2); i feriti e alcuni più fortunati vennero anche ammassati su dei camion ( circa venti per veicolo).

Fu per tutti un trasferimento umiliante, disumano e contrario alle convenzioni di Ginevra; per cinque giorni non fu mai distribuito né cibo né acqua e morirono per disidratazione decine di prigionieri. Sopravvenne la disperazione e i meno schizzinosi, tra cui mio padre, su suggerimento di qualcuno che vantava conoscenze di medicina, raccogliettero le proprie urine nella borraccia per poi berle di notte, fresche, quando la temperatura scendeva sensibilmente; è sempre stata una delle prime cose che mio padre raccontava a chi gli chiedeva come era stata la prigionia (di conseguenza, la paura che gli mancasse l’acqua lo ossessionò per tutta la vita: beveva sempre avidamente e smoderatamente e dovunque andasse il primo pensiero era quello di portarsi acqua al seguito).

A Sollum vennero imbarcati in duemila su navi che ne potevano trasportare mille. Giunti ad Alessandria d’Egitto, dopo circa un giorno di navigazione, vennero caricati su treni merci per trasporto bestiame e trasferiti nei diversi campi di smistamento lungo il canale di Suez.

 

foto 3Mio padre fu assegnato al campo 306, località Geneifa, a qualche centinaio di metri dal canale lungo la strada che da Ismailia porta a Suez. Il campo era formato da una trentina di cosiddette “gabbie” di 100x100 m. circondate da reticolato con le guardie che giravano attorno e illuminate di notte da fotoelettriche. Ogni gabbia poteva ospitare fino a trecento prigionieri. All’interno delle gabbie erano montate delle tende coniche a pianta circolare, con un palo di ferro al centro, dove si andava a dormire, otto per tenda, vestiti di panno e pieni di pidocchi (foto 3).

Si dormiva sistemati a raggiera con i piedi verso il palo; per combattere il caldo soffocante i prigionieri si legavano al piede una cordicella collegata al telo interno della tenda e a turno pedalavano per creare l’effetto ventaglio!

Per l’acqua c’erano due turni di distribuzione, dalle ventitré a mezzanotte e dall’una alle due pomeridiane; bisognava farsela bastare perché poi i rubinetti restavano chiusi tutto il giorno.

Nel frattempo era cominciata la disinfestazione; fu distribuito l’abbigliamento da prigioniero e la vecchia divisa dell’Esercito Italiano venne ritirata e bruciata assieme ai pidocchi.

 

foto 4Cominciarono anche gli interrogatori di rito che si concludevano per ciascuno con l’assunzione dello stato giuridico di Pow (Prisoner of War) e l’assegnazione di un numero di matricola.

Il vitto era costituito quasi esclusivamente da una “brodaglia” di lenticchie, ceci o fagioli mentre per colazione distribuivano tè, un pezzo di pane e, a volte, un cucchiaio di marmellata. Di tanto in tanto davano una scatoletta di carne da dividere in due e in tal caso era opportuno presentarsi alla fila con un amico fidato: uno prendeva la scatoletta e l’altro ritirava il pane. Non erano infrequenti le risse tra prigionieri perché chi ritirava la scatoletta, disonestamente, cercava di far perdere le sue tracce.

Nel frattempo anche in Sardegna era giunta la notizia della caduta di Tobruk; come da prassi mio padre fu dato per disperso e mia nonna, per avere notizie, si rivolse al parroco del paese che a sua volta attivò il vescovo che a sua volta interessò il Vaticano ( foto 4).

 

Il 29 aprile 1941, dopo tre mesi dalla cattura, un gruppo di circa 1500 prigionieri vennero imbarcarti a Suez destinazione Sudafrica. Il piroscafo, seguendo la rotta del Mar Rosso, Corno d’Africa e Oceano Indiano, con scali ad Aden (Yemen) e Mombasa (Kenia), dopo quindici giorni approdò a Durban.

Dal porto di Durban, a piedi, vennero trasferiti al campo-transito di Clairwood nella periferia della città: qui avvenne una seconda disinfestazione con rasatura completa di barba e capelli e distribuzione di altro vestiario. Quindi imbarco sui treni per raggiungere, dopo due giorni di viaggio e 600 km di ferrovia, la destinazione finale: Zonderwater. Il calendario segnava il 2 giugno 1941 e nella regione del Transvaal era cominciato l’inverno.

Il campo, aperto nell’aprile 1941, quando arrivò mio padre conteneva circa ventimila prigionieri italiani.

 

foto 5

Le baracche non erano ancora state costruite e i prigionieri dovevano dormire nelle solite tende a pianta circolare da otto posti col palo di ferro al centro (foto 5): molto pericoloso perché quando pioveva attirava i fulmini e diversi prigionieri sono morti a causa di questo essendo i temporali frequenti e improvvisi.

Il comportamento delle guardie era molto burbero e il vitto assolutamente insufficiente; lo testimoniano i diari e le lettere dei prigionieri sfuggite alla censura ma, in particolare, le neutrali relazioni della Croce Rossa Internazionale. A colazione davano caffè e latte con un pezzo di pane, a pranzo e cena un pezzo di pane, frutta, verdura e, in alternativa, un mestolo di polenta o brodo con un pezzetto di carne, patate…...a volte un po' di formaggio. Giornalmente distribuivano anche 5 sigarette “Springbocks” che chi non fumava barattava con del cibo.

Nel frattempo mia nonna ( si era fatto agosto 1941) ricevette dalla Croce Rossa, tramite il Vaticano, notizia che il figlio era vivo, internato in Sudafrica (foto 6).

foto 6Intanto il numero dei prigionieri provenienti dai teatri di guerra dell’Africa Settentrionale e Orientale aumentava di mese in mese.

La svolta avvenne alla fine del 1942 quando a dirigere il campo fu inviata una personalità sensibile e illuminata quale il Colonnello Sudafricano Hendrik Frederik Prinsloo; di origine boera, confinato da bambino con la madre in un campo di concentramento inglese nella guerra che li aveva visti opposti ai Boeri, aveva conosciuto in prima persona la durezza della segregazione e delle privazioni.

 

foto 7Con lungimiranza e concretezza egli avviò la costruzione di strade e baracche in muratura, mense, teatri, scuole e palestre dove i prigionieri potevano evitare noia e prostrazione.

Nella sua configurazione finale il campo arrivò ad ospitare oltre centomila prigionieri italiani. Era una piccola città-prigione divisa in 14 blocchi: ogni blocco aveva 4 campi di 2000 uomini ciascuno. Coordinato da un sottufficiale italiano che rispondeva ad un omologo sudafricano, ogni campo aveva 24 baracche con tetto in lamiera. Ogni blocco era recintato da filo spinato e sorvegliato da guardie armate sulle altane; lungo il recinto circolavano guardie di colore, dotate solo di lancia o bastone forse perché ritenute, dai soldati sudafricani bianchi, poco affidabili. All’interno del blocco si poteva circolare liberamente ma non si poteva transitare da un blocco all’altro.

Fino all’8 settembre 1943 la suddivisione nei blocchi era fatta sulla base di determinati criteri ideologici allo scopo di evitare le comprensibili tensioni tra prigionieri a seconda dei diversi orientamenti politici; infatti alcuni avevano scelto di collaborare con i detentori ottenendo il permesso di recarsi fuori dal campo per lavori prevalentemente in attività agricole, altri, ritenendo di dover mantenere fede al giuramento iniziale, preferirono non collaborare aspettando il rimpatrio in condizioni generali e di vitto più precarie. Comunque anche il vitto migliorò sensibilmente in maniera tale da essere definito “ottimo e abbondante”, sicuramente superiore a quello che veniva distribuito ai commilitoni italiani nei fronti di guerra.

 

foto 8 Trenta chilometri di strade collegavano le baracche con le mense (3-4 per blocco), i 17 teatri, le scuole per gli analfabeti o per chi voleva studiare l’inglese. Furono costruiti 16 campi da calcio, strutture per pallavolo e pallacanestro; tra i centomila vi erano anche atleti di livello nazionale ed europeo in varie discipline. A tal proposito mio padre, appassionato di pugilato, raccontava del doppio incontro organizzato nella primavera del 1943 tra due prigionieri pugili professionisti; non ricordava i nomi ma scoprii più tardi trattarsi di Verdinelli e Manca, arbitrati dal Tenente Stevens, campione Sudafricano, cui partecipò un folto pubblico ma anche la stampa locale(°).

Manca vinse entrambi gli incontri e poi sfidò il campione sudafricano; Il match, che stava suscitando un grande dibattito sulla stampa locale, non fu mai autorizzato per ovvi motivi di opportunità.

Venivano organizzate attività letterarie e artigianali con mostre e premi per i più bravi; periodicamente si pubblicavano anche dei giornalini/notiziari in lingua italiana curati dagli stessi prigionieri. Furono costruiti ospedali per complessivi 3000 posti letto (foto 7,8) ove ogni reparto era diretto da ufficiali medici italiani, alcuni divenuti poi di grande fama. Piano piano sorsero anche delle cappelle o vere e proprie chiese ove i Cappellani militari cercarono di mantenere quel minimo di disciplina necessaria in assenza degli ufficiali d’Arma volutamente internati in India in spregio alle Convenzioni di Ginevra.

Tutto questo fu possibile grazie alla lungimiranza del Colonnello Prinsloo ma anche all’attività della Croce Rossa Internazionale nonché alla presenza in Sudafrica di una numerosa comunità italiana che collaborò attivamente nell’ambito dei comitati di assistenza che andavano via via formandosi per rendere meno gravosa la vita dei connazionali prigionieri.

 

foto 9Si potrà osservare che ci siamo soffermati solo su alcuni aspetti tutto sommato positivi di questa che alcuni storici hanno definito una “buona prigionia” rispetto, ad esempio, a quella riservata dopo l’8 settembre dai tedeschi ai militati italiani internati; era e rimane tuttavia una storia di privazione della libertà che, per chi la ha subita, è stata comunque distruttiva e insostenibile. E’ ovvio che all’interno del campo si verificarono anche atti di grossolanità e di tracotanza, episodi truffaldini tra “bande” o fatti di vera e propria criminalità. Riteniamo però che essi rientrino più nella inciviltà che nella storia.

Dei centomila, 252 non ebbero la fortuna di tornare a casa; morirono per incidenti o malattia e ora sono sepolti in un cimitero che, assieme ad un Museo, una Cappella e un monumento chiamato i “Tre Archi” (foto 9), costituiscono tutto ciò che rimane dopo che nel 1947, con la partenza degli ultimi prigionieri, il campo fu smantellato.

Una benemerita associazione denominata “Zonderwater Block ex Pow” presieduta dal Dott. Emilio Coccia, stimatissimo ingegnere di Parma che vive e lavora da diversi anni in Sudafrica, ha ottenuto dal governo sudafricano il diritto all’uso perpetuo del Sacrario e alla gestione del Museo ove sono custoditi documenti, oggetti e memorie di quel tempo e di quei fatti.

Ogni anno, agli inizi di novembre, la comunità italiana e le Autorità Diplomatiche dei due paesi si riuniscono per commemorare i 252 caduti ma anche gli oltre centomila soldati che a migliaia di chilometri di distanza dall’Italia sacrificarono parte della loro giovinezza.

 

foto 10L’artigliere Manlio Sulis, classe 1911, Pow 190869, internato al blocco 4 - campo 16, lasciò Zonderwater con altri 444 prigionieri il 24 agosto 1944 salpando da Città del Capo sulla motonave SS “Nieuw Amsterdam” alla volta del Regno Unito.

La paura del siluramento da parte dei sottomarini tedeschi accompagnò i prigionieri per tutto il tragitto (erano trapelate anche al campo le tragiche notizie dell’affondamento del transatlantico “Laconia” -12 settembre 1942- partito da Città del Capo e diretto in Gran Bretagna con 1800 prigionieri italiani mentre navigava al largo delle coste africane nei pressi dell’isola di Ascension e l’affondamento della “RMS Nova Scotia”- il 28 novembre 1942- ad opera del sommergibile tedesco U-177 a circa 150 miglia da Durban, con 769 prigionieri italiani provenienti dall’Africa Orientale).

Sbarcarono a Glasgow in data che non mi è stato possibile appurare, presumibilmente alla fine di settembre; è certo che il 14 ottobre 1944 mio padre fu registrato in ingresso al Mellands Camp n.126 in Manchester col nuovo numero di matricola 162782 (foto 10).

Rimase in Gran Bretagna fino al rimpatrio avvenuto l’11 febbraio 1946.

Una domanda sorge spontanea: perché i prigionieri italiani in mano agli inglesi non furono liberati dopo l’8 settembre 1943 considerato che in tale data divenimmo “cobelligeranti” ossia alleati? Perché il Governo inglese si rifiutò di rimpatriarli persino dopo la fine del conflitto tanto che la maggior parte rientrò in Italia solo nel 1946 inoltrato?

La risposta………..sarà in un’altra storia! *

Leggi l'articolo :"La perfida Albione"

Giovanni Sulis      

(Generale di C.A. in congedo)

(°) Gino Verdinelli ex campione italiano pesi welter.

Giovanni Manca (1919-1982) campione dell’Africa Orientale e campione italiano pesi medi.

Lawrence Stevens (1913-1989) campione sudafricano pesi leggeri e medaglia d’oro Olimpiadi di

Los Angeles (1932).

 

*** rif. articolo:  https://www.difesaonline.it/news-forze-armate/storia/da-tobruk-zonderwater

Manlio Sulis POW

POW Manlio Sulis

Manlio Sulis POW 02