"Una Lunga Prigionia" - Rodolfo Castagna POW 175443 (di Nando Castagna, nipote)

 

Rodolfo Castagna POW 175443 nato a Catanzaro il 2 ottobre 1915.

Sergente MaggioreSCIA - 20° Reggimento “Brescia” in Libia,

Catturato in zona di Sidi Omar, Libia, il 22 novembre 1941

Dopo vari trasferimenti in Africa settentrionale, fu internato nel Campo di prigionia di Geneifa, Egitto e successivamente trasferito a Suez per essere imbarcato sulla nave britannica HMT “Strathallan” che salpò il 22 luglio 1942 alla volta del Sud Africa. Sbarcato a Durban il 5 agosto 1942 venne, provvisoriamente, internato nel Campo di Pietermaritzburg, nel Natal, quindi trasferito l’8 agosto 1942 nel campo di prigionia di Zonderwater,

Il 9 dicembre fu spostato da Pietermaritzburg a Durban ed imbarcato sulla nave S/S “Maloja” che salpò il 10 dicembre 1946 verso l'Italia. Sbarcò nel porto di Napoli il 28 dicembre 1946 per essere avviato al campo di smistamento di Afragola.

Ritornò a Catanzaro, il 2 febbraio 1947.

 

 

(di Nando Castagna, nipote)

UNA LUNGA PRIGIONIA

Mio zio Rodolfo nato a Catanzaro il 2 ottobre 1915, si arruolò giovanissimo nel Regio Esercito ottenendo il grado di Sergente MaggioreSCIA. Allo scoppio della guerra, fu inviato, con il 20° Reggimento “Brescia” in Libia, per andare a rafforzare lo schieramento italo-tedesco a Tobruk, in Cirenaica. Il giorno della partenza, il fratello maggiore Alberto lo aveva accompagnato alla stazione di Sala dove avrebbe preso il treno per Napoli, per poi imbarcarsi per la Libia. Al momento dell’addio, aveva promesso al fratello minore che partiva per la guerra, che sarebbe stato lui a battezzare, al suo ritorno, il terzogenito che stava per nascere, lui o nessun altro. Nessuno dei due avrebbe mai immaginato quanta lunga sarebbe stata la guerra e quanto lontano sarebbe stato il ritorno di Rodolfo. Dopo alterne vicende belliche, che videro, le forze italo - tedesche inizialmente vittoriose, durante la controffensiva britannica dell’inverno 1941, Rodolfo venne catturato, insieme ad altri migliaia di commilitoni, in zona di Sidi Omar, in Libia, il 22 novembre 1941 e, dopo vari trasferimenti in Africa settentrionale, internato nel Campo di smistamento e disinfestazione di Geneifa, in Egitto, come POW ( prisoner of war , prigioniero di guerra ) n° 175443. Da questo campo fu trasferito a quello di Suez, per essere imbarcato sulla nave britannica HMT “Strathallan”, un grande piroscafo di 24.000 tonnellate destinato al trasporto truppe che salpò il 22 luglio 1942 alla volta del Sud Africa. La “Strathallan” ebbe un tragico destino perché fu affondata, cinque mesi dopo, il 21 dicembre 1942, dall’U-Boat tedesco 562 comandato da Horst Hamn, un vecchio lupo di mare pluridecorato, al largo di Orano in Algeria, mentre trasportava, insieme ad un grande convoglio navale, truppe britanniche dirette nel Nord Africa, incredibilmente delle 5.122 persone che erano a bordo, ci furono solo 16 morti, per gli Inglesi fu, comunque, una delle maggiori perdite navali durante tutto il conflitto. Sbarcato a Durban il 5 agosto 1942, Rodolfo venne, provvisoriamente, internato nel Campo di Pietermaritzburg, nel Natal, quindi trasferito l’8 agosto 1942, per ferrovia, alla stazione di Cullinan e da qui, a piedi, tradotto fino al campo di prigionia di Zonderwater, vicino Pretoria nel Transvaal, Sud Africa. Il Sud Africa era entrato in guerra a fianco degli alleati e oltre a mandare proprie truppe sui vari fronti aveva offerto la disponibilità ad ospitare i tanti prigionieri dell’Asse, man mano che si arrendevano all’avanzata anglo americana in Africa. Il campo di Zonderwater, durante l’ultima guerra, fu il più grande campo di internamento mai messo in piedi, capace di ospitare, alla fine del conflitto, ben 108.885 prigionieri italiani provenienti, nella maggior parte, dalla disfatta delle truppe dell’Asse di Al-Alamein, nel Nord Africa, i prigionieri cominciarono ad affluire sin dal febbraio del 1941. In quel campo, lontano migliaia di chilometri dai vari fronti di guerra si visse una incredibile esperienza di convivenza tra i soldati di una nazione vinta, i soldati di una nazione vincitrice e la popolazione locale. Gestire un campo di quelle proporzioni non era impresa facile, significava mantenere la disciplina tra una popolazione di oltre 110.000 persone, quanto una media città europea, formata da prigionieri e guardie di sorveglianza, lontani da casa e da propri affetti. Erano tutti soldati nel pieno della giovinezza, un’intera generazione rinchiusa per lunghi anni, in una prigione a cielo aperto, in un paesaggio arido e lunare, ci si dovette inventare un ragione di vita per sopravvivere, alla fame, alle malattie, alle privazioni, alla nostalgia dei propri affetti e non ultima alla noia. Il Governo Sud Africano doveva garantire, in ogni caso, un pur minimo approvvigionamento quotidiano di cibo, garantendo anche una collocazione logistica e una minima assistenza sanitaria su quell’altopiano a 1.700 metri sul livello del mare, spesso colpito da violenti ed improvvisi temporali e da vere tempeste di fulmini dovute alla presenza di giacimenti ferrosi nel sottosuolo che attraevano le saette, il nome stesso di Zonderwater non prometteva niente di buono perché significava terra senza acqua. Le condizioni climatiche, l’asprezza del territorio, la lontananza da qualsiasi punto di riferimento amico demotivavano i prigionieri all’idea di fuga, limitando l’uso del filo spinato intorno al campo e agevolando il compito dei carcerieri. Inizialmente i prigionieri erano sistemati in migliaia di piccole tende ma, in seguito, grazie ai lavori degli stessi detenuti sorsero baracche in legno ed in muratura. Alla loro partenza, tra il dicembre del 1946 e il febbraio del 1947, quella landa deserta piena di tende, era diventata una vera città in muratura fatta di mattoni rossi che le conferivano un singolare aspetto coloniale, con due ospedali gestiti da personale medico italiano cui le autorità sudafricane e la Croce Rossa Internazionale fornivano le medicine e le attrezzature sanitarie, trenta chilometri di strade, quindici scuole, ventidue teatri, una Chiesa cattolica, decine di campi di calcio, 6 campi da tennis e tante altre strutture per altri sport minori, un cimitero ed una efficiente rete fognaria. Il primo ad essere chiamato a dirigere il Campo fu il Colonnello Britannico Rennie che fu ben presto sollevato dall’incarico per manifesta incapacità a gestire quella complessità umana; fortuna volle che a dirigere il Campo, dall’inizio del 1943, fu chiamato un vecchio Ufficiale reduce dalla prima guerra mondiale, un Ufficiale dalle idee illuminate, il Colonnello Sud Africano Hendrik Fredik Prinsloo, un sportivo convinto che aveva fatto dello sport una vera ragione di vita e che resse con grande umanità la vita del Campo fino al 1947. Con l’arrivo del colonnello Prinsloo il morale del campò aumentò notevolmente. Di violenza, il Colonnello, nella sua vita di vecchio militare, ne aveva vista fin troppa, aveva iniziato a combattere, a fianco degli Africaner contro gli Inglesi da quando aveva 12 anni, aveva partecipato, inoltre, da ufficiale, sul fronte francese, al primo conflitto mondiale. Il Colonnello capì subito che era necessario garantire a quella moltitudine umana una vita normale di sostentamento psicofisico, capì che, principalmente, era necessario impegnare mentalmente e fisicamente tutti i prigionieri per evitare che l’ozio e la lontananza da casa e dagli affetti determinasse nervosismo e liti tra gli stessi internati; lo sport, oltre a varie attività culturali che aveva in mente, poteva essere un mezzo per fare di quella comunità di disperati, un gruppo di gente normale capace di superare, in serena convivenza, una lunga prigionia che sembrava non avere mai fine. I prigionieri italiani furono sollecitati ad adoperarsi per costruire gli alloggi che avrebbero dovuto ospitarli, così come le strutture di aggregazione sociale ed i numerosi campi sportivi per l’attività fisica, come paga avrebbero avute delle sigarette ed altri generi di conforto oltre all’opportunità di muoversi liberamente nel Campo e coltivare piccoli orti per compensare ed integrare la scarsa alimentazione giornaliera. Nella primavera del 1943, fu organizzato un primo campionato di calcio tra prigionieri, con un regolamento ufficiale, terne arbitrali ed un apposito Comitato che avrebbe gestito l’andamento del campionato con tanto di calendario, Giudici sportivi e Commissione disciplinare; per le magliette e le scarpe ci si arrangiava per come si poteva, i palloni non mancavano e c’era anche la possibilità, a fine partita, di farsi anche una doccia calda. Ci fu la partecipazione di centinaia di giocatori qualcuno dei quali aveva militato anche in grossi club della serie A, si formarono ben dieci squadre di calcio: Bartolini, Diavoli Neri, Diavoli Rossi, Duca d’Aosta, Impero, Juventus, Littoria, Sorci Verdi, Savoia e Virtus; il primo campionato, per la cronaca, fu vinto dai Diavoli Rossi. La squadra della Juventus, si legge in alcuni appunti, fu sanzionata di 500 sigarette per un episodio poco chiaro legato ad un risultato sul campo. Quel campionato di calcio assunse una tale importanza che i più bravi tra i giocatori erano trattati da divi, sia dai prigionieri italiani sia dalle guardie sudafricane che riservavano loro un trattamento speciale, con una particolare attenzione per il cibo, esentandoli anche dai lavori più pesanti. Attiva fu anche l’attività teatrale e musicale con brillanti commedie e apprezzabili concerti; con maestri di scuola italiani, fu iniziata anche una massiccia campagna di alfabetizzazione di 9.000 prigionieri che non sapevano né leggere né scrivere, così come furono attivati corsi di lingua inglese per tutti coloro che ne avessero avuto voglia. Nel 1943, dopo l’Armistizio dell’8 settembre, nel Campo, i prigionieri italiani furono chiamati, con alto senso di responsabilità e dopo un colloquio con le autorità del Campo, a pronunziarsi sulla loro volontà di dichiararsi fedeli al fascismo o meno; coloro che dichiararono di voler rimanere fedeli al giuramento prestato, si rifiutarono, contestualmente, di collaborare con il nemico, mentre i rimanenti che dichiararono di non avere alcun riferimento politico, decisero di collaborare con i sudafricani. Per quest’ultimi si aprì anche la possibilità di lavorare fuori dal Campo e ciò grazie alla disponibilità di migliaia di cittadini sudafricani che si dichiararono favorevoli ad ospitare nelle loro aziende agricole o nelle imprese di costruzioni, i prigionieri italiani. I prigionieri non ebbero certa vita agiata, erano in fondo sempre prigionieri di guerra, ma bisogna dare atto che furono trattati umanamente con la dovuta dignità e si fece di tutto per alleviare le loro sofferenze, specie se si raffronta l’esperienza Sud Africana con le altre realtà dei rimanenti campi di prigionia sparsi nel mondo. Dalla lontana Russia si persero le traccia di migliaia di prigionieri italiani, con la colpevole complicità di qualche esponente del vecchio partito comunista italiano; della loro fine non si seppe più niente. Che ci fu un trattamento umano, nel rispetto della Convenzione di Ginevra lo dimostra il fatto che alla fine del conflitto, circa 800 prigionieri italiani rifiutarono il rientro in Patria, preferendo rimanere in Sud Africa, nella speranza di costruirsi un futuro e crearsi una famiglia, la numerosa comunità italiana che vive, attualmente, in Sud Africa discende, in gran parte, da quei prigionieri internati nel Campo di Zonderwater. Oggi, del Campo, scomparse le testimonianze di quel periodo, rimane, solitario, un piccolo Museo dove, oltre a numerosi cimeli dell’epoca, sono conservate le schede informative di tutti i prigionieri italiani. Vicino è stato costruito dagli stessi prigionieri un cimitero di guerra che ospita le salme dei 279 soldati italiani morti durante la prigionia, la maggior parte di essi perirono per le conseguenze delle ferite riportate in combattimento, per incidenti sul lavoro o per malattie infettive, una sessantina perirono perché colpiti da fulmini. Nel cimitero detto dei “Tre Archi”, i prigionieri italiani, nel 1943, per ricordare i loro compagni morti durante la prigionia, costruirono una grande Croce ed un Altare con la scritta “morti in prigionia, vinti nella carne, invitti nello spirito, l’Italia lontana vi benedice in eterno” MCMXLIII. Il rimpatrio dei prigionieri italiani fu molto lento, nonostante le pressioni degli Stati interessati, della Croce Rossa Internazionale e delle famiglie dei prigionieri che non capivano quel ritardo. Ebbe inizio solo dopo più di un anno dalla fine dell’ostilità, in tanti temevano che il rientro anticipato degli oltre 600.000 prigionieri italiani sparsi nel mondo avrebbe potuto condizionare l’esito del Referendum Repubblica o Monarchia del 2 giugno 1946. In realtà i ritardi erano da attribuire alla non sufficiente disponibilità delle navi passeggeri necessarie al rimpatrio di tutta quella gente, senza pensare che oltre ai prigionieri, bisognava rimpatriare nei vari paesi di provenienza, i milioni di soldati degli eserciti vincitori che avevano combattuto in Europa, in Africa o nel Pacifico e che, a pieno titolo, avevano il diritto di precedenza sui prigionieri, un problema quindi logistico ma anche socio politico. Non solo, i governi dei tanti paesi interessati avevano tutto l’interesse a mantenere nei propri confini tanta manodopera pagata a buon prezzo, una manodopera necessaria per le ricostruzioni dei danni della guerra e per il ripristino dell’economie nazionali tanto provate dal conflitto. Il rimpatrio, iniziato solo nel novembre 1946, si concluse nella primavera del 1947. Nel campo di Zonderwater, Rodolfo rimase fino al novembre 1946, quando venne ritrasferito a Pietermaritzburg in vista dell’imminente rimpatrio, il 9 dicembre fu spostato da Pietermaritzburg a Durban ed imbarcato sulla nave S/S “Maloja” che lasciò quel porto il 10 dicembre 1946 con destinazione Italia dove sbarcò nel porto di Napoli il 28 dicembre 1946 per essere avviato al campo di smistamento di Afragola. Ci volle quasi un mese per rientrare a Catanzaro, le strade e le ferrovie erano interrotte in più punti, l’Italia era tutta un cumulo di macerie, qualche reduce dai campi di prigionia, viste le condizioni della Madre Patria, pensò bene di rientrare in Sud africa e chiese di ritornarvi. Si viaggiava confidando nella buona sorte, utilizzando i treni disponibili per le poche tratte rimaste intatte dai bombardamenti, dormendo all’agghiaccio o in ripari di fortuna, sfruttando la disponibilità di qualche autiere dell’Esercito che, contravvenendo alle regole, dava qualche strappo, ma soprattutto, si confidava sulla tenuta delle vecchie scarpe militari. Il periodo di prigionia di Rodolfo in Sud Africa durò, complessivamente, oltre sei anni, 2.200 lunghissimi giorni; al suo ritorno a Catanzaro, il 2 febbraio 1947, a distanza di quasi sette anni dalla nascita, nella Chiesa di San Francesco, fu finalmente battezzato il piccolo Marco ormai grandicello, Padrino, naturalmente, mio zio Rodolfo. Nell’immediato dopo guerra, il Colonnello Hendrik Prinsloo fu invitato in Italia, insieme a tre suoi Ufficiali, per ricevere, dal Governo Italiano Repubblicano, l’importante onorificenza dell’ Ordine della Stella d’Italia per l’umanità dimostrata nei confronti dei prigionieri italiani nei lunghi anni di prigionia a Zonderwater. Analogo riconoscimento gli fu attribuito dalla Santa Sede che gli conferì l’Onorificenza di “Bene Merenti” Causa Nostra Letitia.

Nando Castagna